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Di «intensità emotiva» parla la motivazione dell’assegnazione del Premio Abbiati a «Elektra» di Richard Strauss prodotto dal Teatro di San Carlo del 2003.
A più di vent’anni e dopo una ripresa nel 2017, riportata sulle scene del Massimo napoletano, l’evocativo impianto scenico di Anselm Kiefer si è rivelato senza tempo come il mito che ispira il libretto di Hofmannsthal.
Il regista Gruber si serve dell’impianto scenico per conferire alla tragedia in musica di Strauss quella metastoricità che deve essere del mito. Autonomia e non distacco dalla realtà, grazie a quelle rovine post-belliche, sotto le luci di Guido Levi riprese da Fiammetta Baldiserri. Allo spettatore giunge distinto il giudizio critico avverso alla distruttività della guerra assurto a dovere etico universale, metastorico, il cui verdetto è di condanna senza appello; il matricidio di Oreste diviene esecrazione di una colpa del passato, che con tragica stoltezza si reitera ad ogni esplodere di conflitto.
È un senza tempo mitologico quello dipinto da Kiefer, in cui domina il bianco e Clitennestra è vestita di un gesso che è allegoria di un passato che la pietrifica.
La regia di Klaus Michael Grüber, ripresa da Ellen Hammer è di assoluta coerenza, anche giocando sulle disposizioni e le prossemiche nei dialoghi tra i personaggi, tra cui viene con garbo posta in evidenza una inconscia omosessualità incestuosa di Elektra espressa verso la sorella Chrysothemis.
Nel progetto di Strauss si dispone che Hofmannsthal possa dare rilievo al personaggio della sorella di Elektra, portatrice di sentimenti di tenerezza in un contesto livido di vendetta.
Sul podio Mark Elder ha avuto autorevolezza, rivelando matura conoscenza della partitura dalla complessa orchestrazione, da cui ha saputo trarre accorte dinamiche e giusti rilievi. Di riferimento.
Ricarda Merbeth, nel ruolo del titolo, rivela intensa recitazione, espressività corporea a sostegno di voce estesa, sonora e mai sforzata. Ineccepibile.
La virginale sensualità di Chrysothemis ha avuto in Elisabeth Teige una interprete efficace e in possesso di una fine linea di canto, così come quella di Evelyn Herlitzius che ha dato vita, non solo suono a una straordinaria Klytämnestra ancora giovanile e tormentata più dai sensi di colpa che da smanie di alcova.
Elektra è opera al femminile, ma sul fronte maschile John Daszak non ha demeritato nel ruolo di Aegisth e si è fatto valere Lukasz Golinski nel complesso, se pur breve ruolo di Orest. Giuseppe Esposito è stato “Il tutore”.
Il Coro preparato da Fabrizio Cassi ha fornito molte delle interpreti dei ruoli che di cornice possono dirsi solo per la disposizione sulla scena, non per l’importanza, in cui in un cast internazionale hanno saputo inserirsi Anna Paola De Angelis e Valeria Attianese, rispettivamente “L’ancella dello strascico” e “ La sorvegliante” e “ Le sei serve”: Lucia Gaeta, Franca Iacovone, Linda Airoldi, Sabrina Vitolo, Takako Horaguchi e Deborah Volpe.
Come per le artiste del Coro, inserimento senza timori reverenziali ha avuto la già apprezzata Allieva dell’Accademia, Chiara Polese, ormai una risorsa su cui contare e pronta a spiccare voli alti.
Difficile non associare al giudizio di valore ogni singolo interprete tra cui, a completare il cast Antonella Colaianni, Valentina Pluzhnikova, Arianna Manganello, Regine Hangler, Miriam Clark, Andrea Schifaudo e Simonas Strazdas.
Spettatori entusiasti e applausi prolungati che fanno onore a un pubblico napoletano più maturo e raffinato di quanto la propaganda nazional-popolare voglia fare ritenere, tra rapper e nostalgie eduardian-borghesi. (Dario Ascoli) 

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