25 anni dopo la Rivoluzione di velluto, un bilancio in chiaroscuro

  • 10 anni fa
Dopo la caduta del Muro di Berlino, la fine del socialismo reale in Cecoslovacchia. Una transizione non violenta che, proprio per questo, è stata battezzata “rivoluzione di velluto”.

E’ il 1989: sit-in isolati si susseguono da marzo, ma si moltiplicano dopo l’estate. Finché, il 17 novembre, migliaia di giovani si riversano nel centro di Praga per una manifestazione pacifica, in commemorazione di uno studente ucciso dai fascisti nel ’39. La polizia interviene, reprimendo brutalmente la protesta.

La voglia di cambiamento esplode e, da lì in poi, gli avvenimenti si susseguono con una rapidità incredibile.

Il 19 novembre, nasce il Forum Civico, una piattaforma che raccoglie l’adesione di dissidenti, religiosi, studenti e intellettuali. Su tutti, spicca la figura del drammaturgo Vaclav Havel, che ha già scontato cinque anni di carcere per aver scritto il manifesto Charta 77.

Dietro la spinta degli scioperi e delle proteste, il 24 novembre, la dirigenza del partito comunista cecoslovacco si dimette, incluso il segretario generale Milos Jakes. E’ la fine di uno dei regimi più repressivi dell’Europa orientale ed è avvenuta in appena 14 giorni.

Il 29 dicembre, Havel è nominato presidente della Repubblica cecoslovacca. Incarico confermato in occasione delle prime elezioni libere del 1990.

Questo federalista convinto incassa una pesante sconfitta il 20 luglio del 1992, quando il Parlamento, preso atto delle crescenti tensioni nazionaliste in seno al governo, vota a favore della divisione in due del Paese. Un divorzio che, il 1 gennaio 1993, porta alla nascita della Repubblica Ceca e della Slovacchia.

Venticinque anni dopo, sulla Rivoluzione di velluto il giudizio non è unanime. I sondaggi effettuati da istituti di ricerca nei due Paesi rivelano che solamente il 61% dei cechi e il 51% degli slovacchi hanno un’opinione positiva degli eventi di quell’autunno del 1989.

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