Sono trascorsi 10 anni dalla morte per impiccagione di Saddam Hussein. Era il 30 dicembre del 2006. Sull’ex rais pendeva una condanna a morte per il massacro di Dujail, la strage del 1982 in cui morirono 148 sciiti e quello di Halabja nel 1988 contro i curdi. L’ex rais, al potere in Iraq dal 1979, era stato catturato il 13 dicembre del 2003 dai soldati americani nei pressi di Tikrit, sua città natale.
#OnThisDay in 2006 Former President of Iraq Saddam Hussein was executed. pic.twitter.com/wPDAb4Zm8b— MuseumFacts (@Museum_Facts) 30 dicembre 2016
Iraq, un paese allo sbando?
Euronews ha sentito Loretta Napoleoni, saggista ed esperta di terrorismo internazionale. “Non penso che quell’esecuzione sia il motivo per cui la società irachena è ancora così vulnerabile in termini di sicurezza e in termini di stabilità politica. Anche se Saddam non fosse stato impiccato, la situazione nel Paese non sarebbe molto differente da quella odierna”, ha affermato la Napoleoni.
Tutti ricordano le immagini di quel 30 dicembre a Baghdad: da una parte la gioia degli sciiti, la popolazione più colpita dalle violenze del regime di Saddam Hussein. Dall’altra la rabbia della minoranza sunnita, circa un quarto degli iracheni, collera che ha favorito la nascita di gruppi radicali come l’Autoproclamato Stato Islamico. “Credo che una gran parte della popolazione, che si trova nel triangolo sunnita, posto sotto attacco delle truppe curde, ma anche le milizie sciite guardino all’Isil in modo più positivo rispetto a prima”, prosegue la nostra esperta.
Chris Hedges and Loretta Napoleoni Analyze Spread of Jihadism, Kidnapping and Refugee Trafficking #iraq https://t.co/xD2ei8cJ8L pic.twitter.com/xRjtu9XZLg— Iraq Happenings (@iraqhappenings) 22 settembre 2016
Nonostante il pugno duro da parte dell’ex Primo Ministro Nuri al-Maliki nel 2011 contro estremismo e malgoverno, la “giovane democrazia irachena”, appoggiata e sostenuta dagli Stati Uniti, non è riuscita a fermare nepotismo e corruzione. Nel 2015, secondo il dossier di Transparency International, la situazione in Iraq era peggiorata. “Moltissima gente guarda con nostalgia alla stabilità nel Paese durante il regime di Saddam Hussein, specie se si fanno paragoni con il caos odierno. Questo certo non vuol dire che l’Iraq non potrà mai aver un governo migliore o che il Paese è destinato ad essere una democrazia fallita”, conclude la Napoleoni.
Violenze, caos e terrorismo
Dati e fatti alla mano, l’Iraq è tutt’altro che un Paese pacificato. Le forze irachene, che sono sostenute dalla coalizione internazionale anti-Isil a guida statunitense, hanno annunciato l’avvio di una nuova fase dell’offensiva per la liberazione di Mosul, la città del nord in mano dal giugno 2014 al gruppo radicale. Intanto soni i civili a pagare il prezzo più alto di questa instabilità Solo lo scorso novembre, secondo la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Iraq, 2.885 iracheni sono morti e altri 1.380 sono rimasti feriti.
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Iraq, un paese allo sbando?
Euronews ha sentito Loretta Napoleoni, saggista ed esperta di terrorismo internazionale. “Non penso che quell’esecuzione sia il motivo per cui la società irachena è ancora così vulnerabile in termini di sicurezza e in termini di stabilità politica. Anche se Saddam non fosse stato impiccato, la situazione nel Paese non sarebbe molto differente da quella odierna”, ha affermato la Napoleoni.
Tutti ricordano le immagini di quel 30 dicembre a Baghdad: da una parte la gioia degli sciiti, la popolazione più colpita dalle violenze del regime di Saddam Hussein. Dall’altra la rabbia della minoranza sunnita, circa un quarto degli iracheni, collera che ha favorito la nascita di gruppi radicali come l’Autoproclamato Stato Islamico. “Credo che una gran parte della popolazione, che si trova nel triangolo sunnita, posto sotto attacco delle truppe curde, ma anche le milizie sciite guardino all’Isil in modo più positivo rispetto a prima”, prosegue la nostra esperta.
Chris Hedges and Loretta Napoleoni Analyze Spread of Jihadism, Kidnapping and Refugee Trafficking #iraq https://t.co/xD2ei8cJ8L pic.twitter.com/xRjtu9XZLg— Iraq Happenings (@iraqhappenings) 22 settembre 2016
Nonostante il pugno duro da parte dell’ex Primo Ministro Nuri al-Maliki nel 2011 contro estremismo e malgoverno, la “giovane democrazia irachena”, appoggiata e sostenuta dagli Stati Uniti, non è riuscita a fermare nepotismo e corruzione. Nel 2015, secondo il dossier di Transparency International, la situazione in Iraq era peggiorata. “Moltissima gente guarda con nostalgia alla stabilità nel Paese durante il regime di Saddam Hussein, specie se si fanno paragoni con il caos odierno. Questo certo non vuol dire che l’Iraq non potrà mai aver un governo migliore o che il Paese è destinato ad essere una democrazia fallita”, conclude la Napoleoni.
Violenze, caos e terrorismo
Dati e fatti alla mano, l’Iraq è tutt’altro che un Paese pacificato. Le forze irachene, che sono sostenute dalla coalizione internazionale anti-Isil a guida statunitense, hanno annunciato l’avvio di una nuova fase dell’offensiva per la liberazione di Mosul, la città del nord in mano dal giugno 2014 al gruppo radicale. Intanto soni i civili a pagare il prezzo più alto di questa instabilità Solo lo scorso novembre, secondo la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Iraq, 2.885 iracheni sono morti e altri 1.380 sono rimasti feriti.
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